Il vino non è solo una bevanda, ma anche un business e un investimento.
L’analisi di un esperto del settore, il Prof. Giuseppe G.Santorsola, Professore ordinario di Asset Management, Corporate Finance e Corporate & Investment Banking Università Parthenope di Napoli.
Vino non solo come bevanda ma anche come investimento, così come ci ha illustrato il docente dell’Università di Napoli, in un’analisi di un mercato di collezionisti, investitori, appassionati e purtrtoppo anche speculatori.
Abbiamo detto business e investimento. Un business perché, per l’Italia, rappresenta un fatturato netto di 9 miliardi di euro e un impegno diretto per molte decine di migliaia di lavoratori specializzati. 150 produttori coprono l’80% del mercato, ma solo il 66% delle esportazioni. Questo significa che esiste un numero enorme di piccoli produttori impegnati in uno sforzo gigantesco nell’intento di far conoscere il proprio marchio all’estero. Nel complesso, 5,6 miliardi di euro di esportazioni, ben posizionati nella top ten delle industrie italiane. Il mercato è significativo anche in altri paesi, 50 produttori sono quotati in Borsa con una capitalizzazione media di 60 miliardi di euro. Due di loro sono italiani e con strategie e politiche di marketing molto diverse: Masi Agricola e Italian Wine Brands, la prima al vertice per l’Amarone e la seconda con un solido approccio distributivo multimarca. Dal punto di vista finanziario, a partire dagli anni ’90 alcuni produttori di vino di alta qualità sono stati coinvolti nel mercato dei derivati su commodities, attraverso la creazione di contratti a termine specializzati o warrant con prezzi prestabiliti, che sfruttano il periodo di invecchiamento richiesto di alcuni dei più famosi vini rossi e da meditazione. Precedentemente, in passato, gli stessi produttori offrivano tradizionalmente vendite denominate “en-primeur”, vendendo, in anticipo, casse di bottiglie (6 o 12 ciascuna) dopo la produzione in bottiglia o in botte, garantendo la disponibilità fisica alla giusta età (4, 5 o più anni). La differenza principale tra futures e en-primeur è proprio la cartolarizzazione della prima che crea la possibilità di negoziare i contratti durante il processo di invecchiamento. Ciò favorisce l’interesse dei mercati finanziari a investire e a scambiare i titoli che rappresentano i contratti. Si amplia la gamma degli operatori potenzialmente coinvolti, creando attività di speculazione positiva (e negativa). Come per ogni merce, la differenza interessante con i derivati finanziari è la limitazione del numero di contratti legati al volume di bottiglie esistenti.
Collezionisti, ristoranti, enoteche, wine bar, intermediari finanziari e rispettivi clienti creano un mercato ampio, profondo e resiliente che coinvolge interessi diversi in assenza di vendite allo scoperto e con una volatilità controllata.
Il rischio principale è la qualità della produzione di ogni anno, ma molti broker o esperti operano come market maker attraversoclassificazioni qualificate, di solito basate su scala 100 e largamente riconosciute.
Parallelamente esiste anche un mercato diffuso di aste in cui le casse o le singole bottiglie vengono offerte a specialisti che offrono un valido punto di riferimento per la valutazione dei prezzi correnti. In quest’ottica il vino è una bevanda, un regalo, un investimento e un prodotto industriale, cioè una merce qualificata in grado di creare e mantenere un mercato reale.
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