“Narra la leggenda che Glauco fosse un bellissimo ragazzo dagli occhi azzurri come il mare e i capelli biondi come l’oro. Figlio di Nettuno, Glauco era un abilissimo pescatore e amava lavorare in compagnia delle sirene, delle ninfe e delle nereidi. Era generoso e divideva sempre il magnifico pescato con gli altri”.
Così si presenta il ristorante Glauco, con racconti di mare, e piatti di pesce. Non è biondo e non ha gli occhi azzurri, è moro con gli occhi scuri e mi permetto di lasciare anche a lui la descrizione di “bel ragazzo”. Al di là delle sembianze fisiche, come Glauco divide sempre il pescato con gli altri, i suoi ospiti! E’ lo chef Luca Gragnano, classe 1990, da tre anni a capo di questo ristrante milanese.
In vista della partecipazione alla nuova edizione Chef Awards 2018, lo abbiamo intervistato:
1- La tua storia: da dove è iniziata la passione per la cucina, studi, esperienze lavorative.
RISPOSTA: Sono nato a Milano, all’ età di 5 anni con la famiglia ci siamo trasferiti a Bergamo perché i miei desideravano vivere una vita più nel verde. Quello che mi ha avvicinato alla cucina è stato il nonno, che all’epoca settantenne era un grande sperimentatore. Io andavo tutte le domeniche da lui a pranzo e mi piaceva vedere le sue creazioni, la sua ricerca di spezie particolari. E’ stato lui che mi ha fatto conoscere la scuola alberghiera che io non sapevo nemmeno esistesse. E’ grazie a lui che ho questa passione, in famiglia siamo tutti buongustai, abbiamo sempre mangiato bene, ma è lui che davvero mi ha trasmesso l’amore per la cucina e per la preparazione.
Quindi ho frequentato la scuola alberghiera Nembro, ho fatto i 5 anni classici con fatica (non ero un alunno modello!), e poi ho iniziato l’esperienza lavorativa.
Prima tappa a Brescia, con Philippe Leveillè, che mi ha insegnato il rispetto della materia prima, il vivere in una brigata di cucina dove esistono i problemi di prevalere e di competere. Un insegnamento importante con un grande maestro
Poi sono tornato a Milano e tramite un professore sono arrivato alla Terrazza Visconti, in Via Palestro, dove ho incontrato lo chef Gaetano Riccio, da cui ho imparato il rigore.
Dopo tre anni a Milano mi sembrava di essermi fermato, e ho deciso di fare un’esperienza all’estero, però senza contatti: quindi valigia alla mano sono partito per Londra e ho girato per giorni per i ristoranti a consegnare curriculum. La maggior parte li buttava. Altri invece mi hanno richiamato. Dopo brevi esperienze in:
- Un ristorante di proprietà russa, il Novikov Restaurant, dove ho iniziato a lavorare ma la brigata era completamente italiana e il mio obiettivo a Londra era anche di imparare l’inglese
- Un ristorante stellato, il Pollen Street Social, dove invece erano tutti inglesi, io ero l’unico italiano e da lì preso di mira
sono riuscito a trovare il posto giusto, dove ho fatto un esperienza di un anno, al Piccadilly Restaurant in Piccadilly Circus, dove ho incontrato lo chef sudafricano Matthew Foxon e una brigata davvero internazionale. Un ambiente adatto per imparare, sia la lingua che la convivenza in una brigata così variegata.
Grande mancanza dell’Italia, e perciò sono rientrato a Bergamo dove ho lavorato in un ristorante con cucina alla birra, una sfida per me e una nuova esperienza, anche formativa, è stato un po’ come rimettersi in gioco in un nuovo tipo di cucina.
Mi è poi arrivata un’offerta in Svizzera, a Zugo, in un ristorante italiano, con Camillo Bisaccioni: qui ho ricevuto le bastonate più grandi, dopo tutte le esperienze fatte credevo di avere le ossa per affrontare tutto….e invece sono stato buttato fuori dalla cucina, e questo per un cuoco è l’affronto maggiore!
Ho lavorato lì per un anno, e poi ho avuto la chiamata qui a Milano come chef di questo ristorante, il Glauco. Da tre anni mi hanno inserito in cucina, devo dire con grandi soddisfazioni di tutti: ad oggi abbiamo ricevuto grandi riconoscimenti. E proseguiamo così!
2- La più grande lezione di cucina da chi l’hai avuta?
RISPOSTA: Sono cresciuto leggendo i libri di Gualtiero Marchesi, ho incontrato tante persone uscite dalla sua scuola ma non ho mai avuto la possibilità di incontrarlo e di lavorare per lui. L’esperienza che più mi ha formato è di sicuro quella con Philippe Leveillè che mi ha insegnato il rispetto della materia prima e mi ha indirizzato alla cura del piatto, all’importanza anche della bellezza del piatto, unita alla bontà. Mi ha insegnato che la cucina non deve essere invasiva, e la mia non lo è, è una cucina di rispetto delle materie: le lavora ma non le ammazza.
3- Tre aggettivi/termini che descrivono il tuo modo di fare cucina.
RISPOSTA: Ci piace giocare con i clienti, unire il pesce al formaggio, trovare i giusti legami. La mia cucina è:
- di rispetto, nel senso di rispetto della materia prima
- Sincera, cioè i sapori sono quelli che arrivano nel piatto, non modificati nella loro naturalezza
- Creativa, perché le ricette tradizionali vengono cambiate in modo particolare, mantenendo il sapore tradizionale ma aggiungendo altre note.
E a proposito di note, ho preso questo paragone tra cucina e musica da Marchesi: noi tutti siamo dei musicisti, se uno sbaglia, sbagliano tutti, dobbiamo essere tutti un orchestra.
4- Cosa cerchi da chi lavora con te (collaboratori, cuochi, sous chef)?
RISPOSTA: Proprio perché ho avuto esperienze difficoltose in alcune brigate e ho avuto molte bastonate, cerco di essere “chef amico”, cerco di avere un buon rapporto con tutti i dipendenti, siamo una famiglia che vive insieme 10-14 ore, ed è necessario avere un’armonia di base. Da tutti i collaboratori cerco proposte, devono collaborare in prima persona: proporre, assaggiare, modificare. Poi io al massimo filtro le proposte e le inserisco se possibile nei piatti, ma desidero proprio che lo facciano. Adesso abbiamo preso un cuoco russo, hanno una mentalità diversa, ma nonostante questo chiedo proposte, anche perché questo è un modo per viaggiare in altre culture. Adesso siamo in 5 per un ristorante di 35 coperti, più una pasticceria aperta separatamente in Viale Abruzzi
5- Anche una pasticceria: raccontami!
RISPOSTA: Un tempo è venuto a lavorare qui in cucina, come pasticcere, un mio compagno di classe. Adesso la produzione interna è diventata una vera e propria pasticceria, con lo stesso nome del ristorante. Anche questo sottolinea il fatto che la gente propositiva e che si dà da fare, cresce, se ne ha voglia! Il lavoro non manca, se si lavora bene!
6- In qualità di Best Chef premiato agli Chef Awards 2017 ti vedremo a breve di nuovo protagonista. Cosa ti aspetti e come vivi questa importante opportunità?
RISPOSTA: Con l’edizione dell’anno scorso è iniziato tutto questo progetto Chef Awards. Quest’anno noi vincitori dell’edizione dello scorso anno prepareremo un menù tutti insieme, ognuno con una portata che verrà realizzata in diretta con uno showcooking alla serata finale al Forte Village. Io preparerò l’antipasto e presenterò un piatto “liason” che unisce i sapori italiani. Il bello è stato poter formare una brigata con tutti loro, nonostante si fosse in competizione, insomma come una vera brigata, quindi la vivo come bellissima esperienza.
7- Perchè dovresti essere tu a vincere nuovamente l’Awards di Chef Awards 2018?
RISPOSTA: Sono giovane, ho tanta passione, i risultati si vedono, i clienti ogni volta ce lo ricordano….e trovare il ristorante pieno è il premo più grande ogni volta. Il piatto che presento è anche un inno alla regione che ci ospita, senza però dimenticare le origini lombarde, e credo che questo mix di sapori e di ingredienti sia vincente.
8- Quanto conta la sala in un ristorante (in percentuale rispetto alla cucina) e perchè?
RISPOSTA: La sala conta moltissimo: il cameriere è un venditore, non deve essere un “trascrittore” di comanda. Penso ad un 50% per cucina e 50% per la sala, perché lo chef può realizzare dei piatti ottimi, ma se la persona in sala non li descrive in modo opportuno, non riesce a trasmettere il tuo pensiero, non vale nulla. La bocca del cameriere deve essere il pensiero dello chef , perché magari dietro ad un piatto che appare semplice c’è una lavorazione lunga, complessa, uno studio dedicato. E se il cameriere non riesce a descriverla e a dare importanza a questo studio, al cliente può apparire un piatto banale.
9- Nella storia della cucina chi ritieni sia stato il più grande Maestro in assoluto (a livello mondiale)?
RISPOSTA: Metto sullo stesso livello Marchesi e Bocuse. Sono stati in competizione forse a livello professionale, ma ho letto che sono diventati anche amici e questo ne fa due persone intelligenti e umili, come piacciono a me. Sono Maestri, nel vero senso del termine, perché hanno formato delle persone capaci, degli Chef veri e propri, e in fondo è questo il ruolo di un insegnante, di un professore, di un Maestro, di qualsiasi scuola si stia parlando.
10 – Se tu fossi un tuo piatto quale saresti? Perchè?
RISPOSTA: Io mi riconosco molto ogni volta nei piatti che inserisco nel menù. Un piatto che mi è rimasto molto legato è stato il dentice cotto su legno d’abete, che ha questo sentore di affumicato di norma usato per le carni. Creo una base di purea di patate aromatizzate al lime e lo abbino ad un peperone che viene condito con del miele d’acacia. Sapori contrastanti che però danno un risultato finale molto equilibrato, piacevole e particolare. La dolcezza del miele lega tutti gli altri ingredienti, il lime regala la freschezza, e anche se l’affumicatura e la cottura su legno lo farebbe sembrare un piatto invernale, risulta in realtà molto fresco e anche estivo. Mi piace perché rappresenta molto il mio modo di fare cucina, di rispetto e innovativo, con la ricerca di contrasti all’apparenza forti, ma al gusto equilibrati.
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